di Rosa D’Amico

1) UNA TERRA DI PASSAGGI E CONTATTI

Nella tormentata vicenda dei Balcani e della Serbia, da sempre ‘terra di passaggio’, punto d’incontro e di frizione tra civiltà, i complessi monumentali hanno costituito spesso l’unico ‘segno’ di sopravvivenza ‘materiale’ per interi gruppi nazionali e culturali. Legati all’orgoglio delle origini e ad antichi momenti di gloria perduti, essi sono diventati nei secoli simbolo della ‘resistenza’ della propria identità anche nei periodi di allontanamento, di silenzio e di paura. La distruzione e ricostruzione di singoli edifici o di interi nuclei, più volte testimoniata nel tempo in quei luoghi, conferma come il bisogno di radicamento nella propria storia collettiva abbia incentivato la conservazione del patrimonio culturale, mentre, dalla prospettiva contraria, la sua identificazione con un simbolo visibile dell’identità ‘nemica’, ha sempre creato i presupposti per il suo ‘annullamento’ ideale e materiale.

Se in ogni epoca la cultura del ‘nemico’ è condannata a un destino di distruzione, ancora oggi solo il riconoscimento del ‘filo’ che unisce le proprie radici a quelle dell’ ‘altro’ nella condivisione di uno spazio comune può costituire base per una reale tutela: considerare il patrimonio di un luogo come indivisibile eredità di tutti quelli che vi hanno le proprie radici aiuterà a ‘curarlo’ e farlo esistere: ogni negazione o ‘sostituzione’ del contesto umano mina invece la sua stessa sopravvivenza. Gli organismi internazionali – anche volendolo- non potranno garantire da soli nemmeno la sopravvivenza dei monumenti giudicati ‘patrimonio dell’umanità’, se questi non saranno ‘vissuti’ da chi, attraverso drammatiche vicende, ha consentito che giungessero fino ad oggi. Ovunque il rispetto per l’opera d’arte non può prescindere dal rispetto per le componenti umane che costituiscono elemento cementante della storia e della vita di un territorio. Il cambiamento dei toponimi, con lo ‘sradicamento’ di una parte della ‘memoria’ e della storia, non può consentire la salvaguardia. Qualcosa di simile si sta verificando – quasi sempre in silenzio- nel Kosovo, che, dopo tragiche vicende di scontro, sta finendo per essere ‘spogliato’ di una delle sue identità con l’appoggio- o tacita approvazione- di chi dovrebbe aiutare a ricostruirvi le basi della società civile. Anche i drammatici eventi che solo un anno fa in quei luoghi hanno coinvolto insieme alle persone insostituibili monumenti non hanno suscitato quella forte e unanime condanna che ci si sarebbe aspettati.

Per non lasciare che il silenzio trionfi sarà allora anche necessaria la ‘nostra’ consapevolezza- il riconoscimento dei valori comuni che uniscono quei luoghi e le loro emergenze artistiche alla nostra civiltà. La ‘chiusura’ ideale verso interi Paesi, causata da separazioni e conflitti, ha sempre creato forti danni all’unità della conoscenza. Nello scorso decennio ad esempio per uno strano concetto di ‘embargo’ storico nei riguardi della Serbia, anche alcune importanti manifestazioni dedicate all’arte bizantina hanno ignorato la stessa esistenza di quel fondamentale nodo culturale. L’identificazione di un passato condiviso può aiutare anche noi ad affrontare diffidenze non del tutto superate, confini culturali spesso divenuti confini sociali e politici. I risultati che derivano dalla riscoperta di tanti tasselli, consentita dalla volontà di ricostruire il ‘filo’ che lega ancora oggi due mondi vicini pur nelle naturali differenze, aiutano a capire quanto la loro mancanza renda difficile anche la conoscenza di importanti frammenti della nostra storia, privandoci di una parte insostituibile della comune identità.

2) LA COMPLESSITA’ DEI CONTATTI. STORIA E SITUAZIONE RECENTE

Frequenti notizie sui territori balcanici e sull’antica Serbia ci sono state tramandate nel corso dei secoli dai viaggiatori che attraversavano con varie motivazioni quelle regioni. L’interruzione degli scambi non fu quasi mai totale e nemmeno i drammatici eventi verificatisi durante il lungo dominio ottomano bloccarono le storiche vie di comunicazione, né le espressioni di vita e arte: al contrario, oltre alla creazione di importanti testimonianze della cultura islamica, l’atteggiamento periodicamente tollerante dei conquistatori e la resistenza delle popolazioni autoctone consentirono la sopravvivenza e momenti di nuova fioritura anche per la preesistente tradizione culturale.

Il più forte iato alla conoscenza per quanto riguarda i monumenti medievali ortodossi si ebbe quando, a seguito delle guerre austro – turche di fine ‘600 e del ‘700, gran parte dei residenti serbi- in particolare del Sud e del Kosovo- migrò, sotto la pressione ottomana, nelle regioni danubiane dell’Ungheria: gli eventi bellici e soprattutto l’abbandono portarono allora alla parziale o totale perdita di monumenti e testimonianze.

Solo nel secolo XIX il nuovo interesse nei riguardi dei popoli che si liberavano dalle antiche dominazioni e il desiderio degli intellettuali balcanici di riallacciarsi alle proprie radici, nel periodo in cui si formava il nuovo Regno di Serbia, portarono alla ripresa delle indagini e alla protezione di quanto sopravvissuto: sulle mura delle chiese monasteriali costruite tra la fine del XII e la metà del XV secolo restavano, pur danneggiati, complessi pittorici di altissimo rilievo, più numerosi che in altri centri dell’antico Impero bizantino.

A partire dalla seconda metà dell’‘800, ma specialmente dagli anni venti del ‘900, l’allargarsi della tutela portò, con il ripristino di edifici diroccati, al recupero delle pitture al loro interno e a nuove informazioni sui complessi. Dopo il lungo abbandono, ad esempio, la ricostruzione, nel 1926, delle volte crollate della chiesa di Sopocani, aiutò a conoscere meglio anche i suoi affreschi, incrementando lo studio dell’arte legata alla prima ‘Rinascenza’ bizantina.

Malgrado con l’indagine sui cicli cominciassero a circolare anche fuori dall’ambito geografico più ristretto prima disegni e schizzi, poi immagini fotografiche dei monumenti, fino almeno agli anni trenta del ‘900 quelle testimonianze restavano tuttavia note al di là dei Balcani solo a pochi specialisti ed eruditi.

Ancor più difficile era il riconoscimento dei contatti quando l’intera cultura bizantina, salvo poche eccezioni a Costantinopoli e nell’antico Oriente, era conosciuta in Occidente quasi esclusivamente tramite testimonianze tarde, o periferiche e ‘provinciali’, che non rendevano giustizia alla sua grandezza. Non è del resto del tutto superata l’interpretazione negativa del termine ‘bizantino’, collegato solo agli aspetti più deteriori e tradizionalisti dell’arte d’occidente, dimenticando il debito che la crescita delle nostre maggiori scuole deve a quella cultura.

 

3) LA SERBIA DEL ‘200 TRA DUE CULTURE

Solo in tempi relativamente recenti si sono aperte nuove strade alla conoscenza dell’arte e della società serba del ‘200 – ‘300 nei suoi rapporti con l’Occidente medievale e con l’Italia. Alla crescita dei legami tra le due coste, rafforzati lungo le rotte adriatiche dalla reciproca necessità di scambi commerciali, non fu estraneo, specie nel secolo XIII, il ruolo svolto dai protagonisti – occidentali e orientali- della storia europea del tempo. Non dimentichiamo che la cultura fu una delle espressioni più significative di quel secolo, in cui le vicende storiche portarono Europa e Mediterraneo a costituire, nel bene e nel male, una ‘comunità’ ‘aperta’ e ricca di contatti.

Alcune delle storiche vie che fin dall’epoca romana univano l’Adriatico all’interno dei Balcani si incontravano proprio nella Raska, la regione che, insieme al vicino Kosovo, avrebbe costituito centro propulsore dello Stato serbo medievale, e di li proseguivano verso le capitali dell’Impero bizantino, Salonicco e Costantinopoli, rendendo anche geograficamente questi territori un importante crocevia tra Oriente e Occidente.

Particolarmente a partire dalla seconda metà del XII secolo si sviluppò in questa zona, ricca dal punto di vista agricolo e minerario, quello che nel giro di pochi decenni sarebbe diventato il regno di Serbia: la spinta all’unione tra diverse realtà preesistenti, con allargamento del territorio, era stata data soprattutto da Nemanja, divenuto ‘gran jupano’ (ovvero ‘sovrano’) della gente serba (1166- 1196- morto nel 1199). Colto e abile, egli pose le basi per la nascita di una dinastia e di uno Stato la cui importanza crebbe tra ‘200 e ‘300, finendo per costituire uno dei fattori più interessanti della storia balcanica del tempo. Legato alla cultura dell’Impero bizantino, con cui ebbe rapporti (sua moglie Anna era greca) e soprattutto scontri, difensore della ‘vera fede ’ ortodossa, Nemanja mantenne però contatti e stabilì alleanze in Occidente, avvicinandosi a Federico Barbarossa e alla stessa Roma papale. Come avverrà per i suoi successori, egli tenne una posizione aperta nei riguardi del cattolicesimo, cui apparteneva tra l’altro la maggior parte delle popolazioni e degli stessi episcopati del Litorale serbo, la cosiddetta ‘Zeta’, comprendente il sud della Dalmazia, la costa dell’attuale Montenegro e il nord dell’Albania.

La Serbia e gli altri Stati balcanici non si fecero scrupolo di approfittare per la propria crescita della decadenza dell’Impero bizantino da cui in vario modo dipendevano. Nel 1204 l’indebolimento del grande vicino portò alla conquista della stessa capitale imperiale, Costantinopoli, da parte dei Crociati latini – in particolare veneziani e francesi- che, attirati dalle sue ricchezze, la assaltarono e depredarono invece di proseguire verso la Terra santa, e la tennero con alterna fortuna fino al 1261, quando vi tornarono al potere gli imperatori greci della dinastia paleologa. Quell’evento impregnò di sé le logiche storiche e la cultura di tutto il secolo, e non solo.

Per verificare la particolare posizione politica assunta dalla Serbia nelle vicende del tempo, varrà la pena considerare anche le informazioni che ci vengono dalle scelte dinastiche dei Nemanjic’. Per via matrimoniale arrivarono alla loro corte importanti figure femminili legate ora all’Impero e agli Stati d’Oriente, ora ai potentati d’Occidente. Stefano primo coronato, figlio di Nemanja (1196- 1228) – il primo dei sovrani serbi cui venne riconosciuto il titolo di re- nel 1201 ripudiò la prima moglie Eudossia, figlia dell’ultimo Imperatore bizantino della dinastia degli Angeli, e sposò, pochi anni dopo, Anna Dandolo: proveniente da Venezia, la potenza più influente nel ‘nuovo’ Impero ‘latino’, e nipote di Enrico Dandolo, principale ispiratore e protagonista della conquista di Costantinopoli, la sua presenza potette aiutare nei primi decenni del ‘200 i rapporti tra la sua città di origine e la Serbia, contribuendo anche, almeno in parte, a facilitarvi l’arrivo di importanti maestranze artistiche dall’antica capitale.

Passando alla generazione successiva, mentre i primi due eredi di Stefano, Radoslav (1228- 1234) e Vladislav (1234 – 1243) , si unirono rispettivamente con una principessa greca dell’Epiro e con la figlia del vicino potente re di Bulgaria, sancendo uno spostamento ‘politico’ verso Oriente, il terzo, Uros, figlio di Anna Dandolo (1243- 1276), alla metà del secolo prese di nuovo in moglie la rappresentante di una potente casata d’Occidente. Elena d’Angiò, cattolica, colta, sempre riconosciuta dal papa ‘fedele figlia della chiesa ’, era parente degli Angioini dell’Italia meridionale, che la definivano ‘cara consanguinea ’.Chiara risulterà la logica ‘antigreca’ di questa scelta. Si ricordi che la dinastia degli Angiò, di origine francese, era una delle grandi ‘potenze’ del tempo. Dopo aver avuto un significativo ruolo nella Costantinopoli ‘latina’ fino al ritorno dei Paleologhi nel 1261, nella seconda metà del ‘200 andò sempre più ampliando la sua influenza in Europa, con forti mire sui Balcani e sull’Ungheria – poi in parte realizzate ai primi del secolo successivo. Per quanto riguarda l’Italia, oltre a dominare Napoli e molte zone del Sud, stendeva strategicamente il suo velo protettivo sul papato, sul ‘partito’ guelfo e le città ad esso legate, e sull’ordine francescano.

La presenza di Elena in Serbia in un momento di complessi intrecci per le vicende del Regno ebbe, più ancora di quella di Anna Dandolo, un ruolo significativo negli scambi tra i due mondi cui apparteneva. Anche se sempre in rapporto con la famiglia di origine, ella ebbe un forte ascendente nella nuova patria: prima insieme ad Uros lavorò per la stabilizzazione del regno, e fu presente quale donatrice o sostenitrice nelle fondazioni da lui promosse, anche se nello stesso tempo proteggeva le autonomie delle regioni costiere. Dopo il 1276, quando il marito fu detronizzato dal figlio maggiore Dragutin, Elena, insieme all’ex re (morto l’anno successivo), prese i voti, secondo una consuetudine allora diffusa e riproposta dai regnanti serbi – a partire da Nemanja- nel momento in cui lasciavano il trono. Ciò non le impedì di mantenere una sua personale influenza fino al 1314, data dalla morte. A parziale ‘ricompensa’ per l’offesa verso il padre, Dragutin, al momento di assumere il potere, le aveva concesso in dotazione una vasta zona del Litorale, con importanti città, tra cui Cattaro, Scutari e Antivari, e alcuni territori dell’interno, fino a Brnjac nel Kosovo, luogo che divenne centro, fino almeno al 1308, di una sua corte aperta ai rapporti. In quegli anni, mentre continuava a svolgere un ruolo autorevole nelle faccende di Stato, cercando di influenzare le scelte dei figli Dragutin e Milutin, riprese anche a sostenere le comunità cattoliche del Litorale proteggendo in particolare – come i suoi parenti angioini in Italia – i conventi francescani e fondandone di nuovi. A conferma del suo rilevante ruolo anche simbolico nell’ambito dello Stato, la sua immagine compare spesso nella pittura monumentale. La troviamo varie volte negli affreschi di Sopocani, commissionati da Uros: nell’ offerta della Chiesa alla Vergine e a Cristo del nartece, ad esempio, mentre da un lato il re, abbigliato secondo le usanze imperiali bizantine, avanza tenendo davanti a sé Dragutin, il figlio maggiore, dall’altro Elena, pure contrassegnata dagli abiti e dalle insegne regali, accompagna il più giovane Milutin. Più tardi la troviamo, oltre che nella sua fondazione di Gradac, anche in quelle dei figli: nella cappella di Dragutin alle ‘Torri di San Giorgio’ a Ras appare in lutto per la morte del marito; ad Arilje è presente nel corteo dei monaci Nemanjic; e fin nelle pitture promosse da Milutin a Gracanica, realizzate quando l’ex regina era già morta, la sua immagine torna, a celebrazione della dinastia, accanto a quella del marito.

Proseguendo nella sua politica, era stato lo stesso Uros, in vista di una pacificazione con il potente vicino, a promuovere l’unione del suo erede Dragutin (1276 – 1282) con una principessa ungherese di educazione occidentale, Katalina, figlia del re Stefano V: tale evento, che dal 1268 inserì il principe serbo nelle vicende dinastiche del vicino, potente stato, sarebbe stato all’origine della tensione tra i due Nemanjic’, e avrebbe influenzato le strategie future della regione. La presenza per un periodo della principessa ungherese accanto ad Elena alla corte serba dovette peraltro influenzare ulteriormente le scelte culturali dello Stato in crescita.

Dopo aver usurpato il trono paterno nel 1276, Dragutin fu a sua volta sostituito ‘pacificamente’ nel 1282 dal fratello Milutin (1282- 1321) , conservando il territorio a nord della Serbia ampliato fino alla zona danubiana, al confine con l’Ungheria. Solo dal 1299 le cose presero definitivamente un’altra strada: il matrimonio tra Milutin e Simonida, figlia dell’Imperatore bizantino Andronico II, portò da un lato alla rottura con il fratello – sodale con il suocero e da sempre antigreco – e ad una guerra civile durata più di dieci anni, dall’altro stabilì in modo definitivo il rapporto privilegiato –politico, culturale e sociale- tra la Serbia trecentesca e l’Impero rifondato dai Paleologhi.

 

4) I NEMANJIC’ E LA FONDAZIONE DEI MONASTERI NEL ‘200

Anche per la posizione ‘intermedia’ tra Oriente e Occidente mantenuta dai Nemanjic’ durante il periodo dell’Impero latino di Costantinopoli e per tutto il secolo, proprio il ‘200 costituì uno dei momenti di massima complessità anche per quanto riguarda il dialogo culturale tra lo Stato serbo e le realtà con cui di volta in volta entrò in rapporto: pur sempre strettamente legate al mondo bizantino, proprio le testimonianze di quel secolo, promosse dalla Corte come dalla Chiesa, presentano più frequenti contatti con ‘l’altra sponda dell’Adriatico’.

Colti e sostenuti dalla ricchezza economica, che li portava al desiderio di eguagliare gli Imperatori, e disponendo dei migliori artisti allora sul mercato, i Nemanjic – laici ed ecclesiastici- dettero una loro personale e particolare impronta ai complessi da loro commissionati.

Mancando una capitale stabile (pur dovendo ricordare il ruolo sostenuto in questo senso dalla città di Ras, identificata nelle vicinanze dell’attuale Novi Pazar), anche la funzione di centri politici, culturali e sociali fu assunta spesso nella giovane Serbia dai monasteri e dalle Chiese episcopali. Fondati dai re, come dai membri più elevati della Chiesa nazionale, ai cui vertici furono spesso membri della stessa famiglia Nemanjic’, i monasteri, circondati di forti mura, comprendevano di solito la Chiesa principale, altri minori edifici di culto, la residenza dei monaci, la foresteria, il refettorio, varie strutture di servizio, luoghi di riunione, tutto rigorosamente sottoposto ad un’unica Regola. Ogni monastero aveva una sua proprietà, allargata a terreni e villaggi che gli venivano concessi per il mantenimento della comunità e la cui dimensione ne arricchiva il prestigio (figura 1).

Al primo esponente della dinastia, Nemanja, nella logica lungimirante che lo aveva portato a ‘costruire’ le fondamenta di una nuova realtà politica, si deve l’erezione di importanti complessi come S. Nicola a Kursumlja, Djurdjevi Stupovi (Le ‘colonne’ o ‘torri di San Giorgio’, in alto sopra l’attuale città di Novi Pazar) e soprattutto Studenica (ca 1183(?)- 1196), dove, lasciato il potere ‘terreno’, egli prese i voti negli ultimi anni della vita. Né va dimenticata, accanto ad altri suoi interventi su edifici preesistenti, la rifondazione, sul Monte Atos, luogo particolarmente sacro per gli ortodossi, del monastero di Hilandar, che ottenne di destinare a sede dei monaci serbi: lì, invitato dal figlio Ratsko, che si era fatto monaco sulla ‘montagna sacra ’ con il nome di Sava, egli concluse piamente la vita, divenendo poco dopo il primo e più importante tra i santi dinastici serbi.

Con i suoi eredi, lo stesso Sava e suo fratello, il re Stefano Primocoronato, fu definitivamente sancita l’esistenza del Regno e della Chiesa di Serbia, riconosciuti rispettivamente nel 1217 (invio della corona reale a Stefano da parte del papa Onorio III) e 1219 (autonomia della Chiesa nazionale, con a capo lo stesso Sava, nominato allora Arcivescovo dal Patriarca di Nicea).

E’ interessante notare, pur nella coincidenza dei fini, la differente posizione ‘politica’ di Stefano e Sava nei rapporti con Oriente e Occidente: il primo, pur mantenendo la funzione di ‘difensore della vera fede’ ottenne la corona dal papa di Roma e, ripudiata una principessa bizantina, sposò una Dandolo e cercò più di un legame con i principati d’Occidente. Il secondo, sia culturalmente che politicamente, restò sempre totalmente volto alla difesa dell’eredità bizantina e ortodossa.

A loro si deve una forte attività di promozione culturale, destinata a dare fondamento e conferma alla dinastia. Fra 1207 e 1220 fu fondato il complesso di Zica, dal 1219 prima sede dell’Arcivescovado indipendente; nuovi importanti interventi furono effettuati a Hilandar, legato agli ultimi giorni di Nemanja e alla vita monastica di Sava prima del ritorno in patria. Particolarmente significativo fu il proseguimento dei lavori a Studenica, dove tra 1204 e 1205 era stato traslato da Hilandar il corpo del fondatore, facendone il luogo di culto più importante dello Stato.Tra 1208 e 1209 la decorazione pittorica concluse la parte più importante del cantiere. Radoslav, primo figlio di Stefano, nel suo breve regno, fu impegnato soprattutto in nuovi interventi nelle fondazioni preesistenti. Ancora a Studenica, davanti alla nobile struttura della facciata di Nemanja, egli fece costruire il ‘nartece’ esterno ( struttura di ingresso alla chiesa ortodossa): un ambiente di grandi proporzioni, con due cappelle laterali. Vladislav, suo fratello, fu ‘ktitor’ di uno dei più importanti monasteri serbi, quello di Mileseva, mentre al suo fratellastro Uros si deve il complesso di Sopocani con la chiesa della Santissima Trinità, la cui pittura rappresenta altissima testimonianza della prima rinascenza bizantina.

Seguendo la tradizione dei Nemanjic, Dragutin, nei suoi cinque anni di regno, ma anche nel successivo periodo di concordia con il fratello, intervenne su monumenti preesistenti (si veda la Cappella che prende da lui il nome nell’antico complesso delle ‘Torri di San Giorgio’ presso Ras (Djurdjevi Stupovi), e realizzò sue fondazioni, come la Chiesa episcopale di Arilje, terminata con le pitture nel 1296.

Già alla fine di quel secolo, nei primi anni di regno di Milutin, quando questi, dopo aver ampliato il territorio sottraendo a Bisanzio la Macedonia e molte terre già greche, stabilì una lunga pace con la dinastia paleologa tramite il matrimonio con Simonida, e ancor più nei primi decenni del Trecento, fino alla sua morte, si assisterà a una nuova fioritura di fondazioni, legate al suo nome ma anche a rappresentanti della nobiltà, del clero e di singole comunità. Le più alte testimonianze dell’arte di quel momento, particolarmente nel Kosovo, in Macedonia e nella conquistata Salonicco, sono preziosa espressione della nuova fioritura dell’arte bizantina, nota come ‘rinascenza paleologa’. Argomento di un altro capitolo di questo volume.

 

5) CARATTERE DI ‘PONTE’ DELL’ARCHITETTURA E DELLA PITTURA NELLA SERBIA DEL ‘200

La maggior parte delle chiese costruite nel ‘200 in Serbia deriva da un modello architettonico unico, riproposto nel tempo con importanti variazioni che non ne mettono in discussione gli elementi fondamentali. Principale caratteristica di questo gruppo di edifici, legati alla cosiddetta ‘scuola raska’, dal nome della regione di Ras (Rascia o Raska), centro dello Stato nascente, dove ne sorsero gli esempi più importanti , fu quella – non presente in altre zone dell’Impero bizantino- di unire a tipologie costruttive che richiamano gli esempi proposti dal ‘romanico’ sull’altra sponda adriatica -soprattutto in Puglia, ma anche per alcuni elementi in Lombardia- una pianta e una distribuzione interna adattate alle necessità rituali della Chiesa ortodossa. Al ‘romanico’ ci riportano le facciate a spiovente, la presenza delle lesene e degli archetti ciechi in alto a spartire gli spazi esterni, la tipologia delle bifore, ma anche molte strutture di sostegno di volte e archi e la generale tensione verso l’alto che caratterizza molti di questi edifici rispetto ai prototipi bizantini. Alla tradizione orientale è invece strettamente legata la suddivisione interna, in cui gli spazi si raccordano intorno al centro rappresentato dalla cupola appoggiata su una base cubica, e soprattutto – con innovazioni di volta in volta proposte – il programma delle pitture murali, che nella chiesa ortodossa costituiva un sistema unitario: nelle parti più elevate – cupola e volte- i dipinti alludevano alla Rivelazione del mondo divino; nell’abside, dove si celebrava, erano in rapporto con il Mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, mentre tutti gli spazi destinati ai fedeli erano occupati da scene della vita di Cristo, della Vergine, di Santi, da prefigurazioni bibliche, figure di profeti, apostoli, martiri, monaci, dall’alto verso il basso e dal centro verso i lati. Va ricordato come, a seguito dell’antica controversia iconoclasta, nella cultura cristiana d’Oriente l’immagine aveva acquistato una identificazione quasi magica con il soggetto rappresentato (Velmans), diventando un momento di comunicazione con il mondo ultrasensibile e assumendo un valore quasi sacramentale, equivalente ai misteri officiati sull’altare. Lo spazio della chiesa veniva così ad essere l’ universo ideale in cui aveva luogo l’unione mistica tra il fedele, nobilitato dall’Incarnazione, e Dio.

 

6) LE GRANDI FONDAZIONI: STUDENICA, MILESEVA, SOPOCANI: CICLI PITT0RICI LUNGO IL PERCORSO DELLA RINASCENZA BIZANTINA

I costruttori e gli abili scalpellini cui si devono molte testimonianze della scuola raska, pur pienamente al corrente dei modi architettonici bizantini, dovettero avere rapporti con il Litorale, dove erano naturalmente presenti suggestioni dall’altra sponda adriatica: veniva sicuramente da Cattaro il francescano Vitus che lasciò la sua ‘firma’ nella chiesa del monastero di Visoki Decani in Kosovo (terminata tra 1334 e 1335), il più recente edificio esistente legato a questa tipologia (foto 2).

Dopo San Nicola a Kursumlja e ‘Le torri di San Giorgio’ presso Ras, che ne avevano posto le prime basi, il prototipo più significativo dell’architettura ‘raska’ era stato, alla fine del secolo XII, la chiesa di Studenica: fondata da Nemanja, custode delle sue spoglie e centro del suo culto, la connessione con la sua figura e il ruolo di primo tra i monasteri serbi che ne conseguì contribuirono a farne un simbolo da imitare da parte dei successori. Anche per questo il suo modello si diffuse con successo nei territori sottoposti allo Stato e alla Chiesa serba – tenendo peraltro conto delle modifiche attuate poco dopo nella chiesa di Zica, prima sede dell’Arcivescovado, fin dall’origine luogo di incoronazione dei re, di cui era stato ‘ktitor’ Stefano Primo coronato- poi lì sepolto- in stretto rapporto con Sava.

Nella chiesa di Studenica, dedicata alla Madonna, sia l’armonica struttura esterna – dove, nelle parti più significative, gli architetti usarono come materiale edilizio il prezioso marmo bianco- che la decorazione scolpita e a rilievo – in particolare la lunetta sull’ingresso principale, con la Madonna tra angeli- trovano vicini confronti nella produzione romanica- in particolare pugliese- dello stesso ‘200.

Le pitture più antiche all’interno sono invece – come diventerà consueto per questi edifici- espressione della pittura bizantina dell’epoca. Ad eseguirle furono chiamati maestri forse direttamente costantinopolitani, che qui, pur seguendo le norme imposte dal programma, sentirono la forte influenza culturale dei committenti serbi – il re Stefano e soprattutto suo fratello Sava, che all’inizio del secolo aveva lasciato Hilandar ed era tornato in patria per portare avanti la fondazione del padre, e stabilire le regole della nuova comunità religiosa

E’ questa influenza che porta qui alla comparsa di temi e Santi originali, all’uso della lingua locale accanto a quella greca nelle iscrizioni, e alle prime intromissioni della ‘sfera laica in quella del sacro’ che diventeranno frequenti nella successiva arte serba: i ritratti ‘realistici’ dei membri della dinastia e della Chiesa entrano in dialettico rapporto con i Santi protettori e con la Storia della Salvezza di cui finiscono per considerarsi i prosecutori quali difensori della fede: si vedano gli esempi di Mileseva (figura 3) e Sopocani (figura 4)

Pur non dimenticando la possibile influenza svolta anche dalla regina veneziana Anna Dandolo e dai naturali legami con la Costantinopoli ‘latina’ negli anni dopo la conquista, la presenza di grandi ed aggiornati maestri in territorio serbo già all’alba del secolo XIII viene collegata soprattutto con l’attività svolta da Sava, che intrecciò rapporti con tutti i maggiori centri dell’Oriente ortodosso: dal Monte Atos a Costantinopoli, Salonicco, fino a Gerusalemme e Nicea, capitale della riscossa bizantina e principale fulcro della cultura ‘greca’ duecentesca, dove sarebbe stata riconosciuta nel 1219 l’autonomia della Chiesa serba. Nel corso dei suoi spostamenti incontrò e invitò in patria rinomati artisti che cercavano occasioni di lavoro migliori che non nell’antica capitale depredata e sottomessa, e che in quei decenni potevano lavorare, oltre che per i re balcanici e per i magnati dell’Impero, anche per nobili stranieri (Angiò, Monferrato, Orsini) imparentati tra loro. In Serbia quelle illustri maestranze trovarono condizioni ambientali favorevoli, che consentirono loro anche di operare con maggiore libertà.

Nello strato pittorico originario di Studenica spiccano, accanto alle tante figure di Santi e Profeti, la Vergine col Figlio, vera e propria icona affrescata, simbolo dell’Incarnazione e dedicataria della Chiesa, e la grande Crocifissione (figura 5)- tra le più alte realizzazioni del tempo nell’intera pittura bizantina: qui la linea, precedentemente protagonista della figurazione, diventa elemento che accompagna una più calma scansione del racconto, un nuovo interesse per il volume e l’espressione, anche se mai individualizzata fino in fondo.

La presenza di Sava a capo della Chiesa nazionale restò di fondamentale importanza per la cultura serba fino al 1235, anno della morte: egli mantenne infatti una forte influenza anche durante il regno del maggiore dei suoi nipoti, Radoslav, e all’inizio del governo di Vladislav: anni in cui l’arte pittorica in Serbia, in armonia con le esigenze del nuovo stato, continuò a seguire con una propria autonomia i più nobili corsi della pittura bizantina.

In quei primi decenni del ‘200 la pittura delle città greche d’Oriente – di cui le testimonianze serbe costituiscono tra le più alte espressioni- era coinvolta nella necessità di rinnovamento e di riscossa conseguente alla conquista di Costantinopoli del 1204, che aveva messo in crisi le certezze circa l’ ‘eternità’ dell’Impero. Fino ad allora per secoli committenti ed artisti avevano rifiutato l’eccessivo avvicinamento dell’immagine alla realtà: le figure dei personaggi sacri erano state smaterializzate per evidenziarne il significato spirituale e la funzione simbolica, secondo una regola sempre seguita dopo il periodo dell’iconoclastia, quando i sostenitori dell’immagine avevano così voluto superare la discussione circa una possibile lettura della rappresentazione ‘realistica’ dei protagonisti della storia sacra come incentivo all’idolatria. Adesso, pur senza mai arrivare all’imitazione della realtà –per ragioni teologiche e non di scarsa capacità inventiva- si sentiva invece l’esigenza di un ritorno al classicismo, con una nuova progressiva ‘umanizzazione’ anche delle figure sacre, e se ne trovava una base teologica nell’accento posto sul valore dell’Incarnazione di Cristo, fattosi uomo. Alla ricerca di modelli, se ne trovarono fonti nel mondo classico, ma anche e soprattutto nelle opere- più recenti- dell’ellenismo. Fino al ritorno dei Paleologhi, e ancora nei decenni immediatamente successivi, la ‘rinascenza’ dell’antico fu fatta propria, come mai era avvenuto fino ad allora, anche dai vertici della Chiesa ortodossa.

Tra 1222 e 1228, quando regnava ancora il padre ed era solo ‘giovane principe ’, Vladislav aveva fatto costruire la propria fondazione-mausoleo, Mileseva, di cui poi continuò ad occuparsi durante il suo regno. La struttura della chiesa segue i ‘modi’ imposti dall’ormai venerato modello di Studenica e da quello – con cui più immediatamente si rapporta- di Zica (figura 6). Seguendo l’esempio del padre e dello zio, che avevano traslato le spoglie di Nemanja (San Simeone)a Studenica, Vladislav fece trasportare a Mileseva nel 1336 i resti dello stesso Sava, anch’egli presto santificato: fatto che contribuì prima a dare prestigio, poi a mantenere a lungo la fama del monastero, divenuto il più importante dopo Studenica.

Nel cuore della Raska, il complesso costituì nei secoli successivi significativa ‘stazione’ lungo il percorso delle strade che portavano dal Litorale a Salonicco e a Costantinopoli.

Per quanto riguarda l’architettura, la scansione originaria degli spazi esterni non è più riconoscibile. Il lungo abbandono e i danni subiti soprattutto tra fine ‘600 e ‘800, con perdita di parti dell’edificio, e crollo del tetto, avevano portato nel tardo ‘800 a un restauro ricostruttivo: la muratura esterna fu allora ricoperta da una malta uniforme che rende tuttora difficile lo studio delle parti originali della struttura.

Pur danneggiati, splendono sulle pareti interne gli affreschi sopravvissuti alle secolari traversie: alla loro complessa concezione iconografica- adattamento degli schemi importati alle necessità e alla filosofia del nuovo Stato- e alla presenza dei più aggiornati pittori dell’epoca non fu nemmeno qui estranea l’influenza di Sava. Elemento significativo, che dà un aspetto unitario al complesso, pur nella presenza di diversi maestri, è, in particolare nella navata, il riconosciuto parallelismo tra le composizioni che, attraverso raffinati giochi di opposti e contrasti simmetrici, crea una complessa armonia dell’insieme. Ad esempio le frammentarie Natività e Discesa al Limbo – inizio e momento conclusivo della Salvazione- si affrontano sulle pareti laterali, mentre la Presentazione al Tempio è divisa tra due pilastri, e i Santi raffigurati in una cantoria sono simmetrici a quelli nell’altra sia per numero che per significato. La caduta del muro di separazione tra navata e nartece impedisce di leggere nel complesso la grande figurazione della Dormizione della Vergine, di cui restano gli Apostoli sui due lati (figura 7) E’ anche interessante notare (Radojcic’) come, in modo originale, il ‘percorso’ delle rappresentazioni vada qui in direzione contraria a quella consueta: le storie sono infatti disposte da destra a sinistra e dal basso verso l’alto.

Nella perdita di molte testimonianze realizzate nelle capitali d’Oriente, il ciclo di Mileseva rappresenta un punto fermo per la conoscenza della pittura in Serbia e nella stessa Bisanzio all’epoca della prima Rinascenza, e costituisce insieme verifica dei tanti passaggi che contraddistinsero l’Europa ‘aperta’ di quel periodo. In armonia con le nuove tendenze, i cambiamenti rispetto alla tradizione- e allo stesso grande prototipo di Studenica – vi sono evidenti. Cercando esempi i maestri di Mileseva si rifecero, come i loro contemporanei attivi in tutto l’ ‘ecumene bizantino ’, ai monumenti tardo antichi e a modelli di epoca ellenistica, unendoli alle suggestioni dell’arte ‘di mediazione’ formatasi al tempo dell’impero latino, che forse portò anche nella pittura al possibile incrocio tra elementi bizantini e romanici (Radojcic’)

Si veda, nello spazio sotto la cupola, la grande ‘Deposizione dalla Croce’, (figura 8- b/n) dove la scena, originariamente impreziosita dal fondo d’oro, pur seguendo un’iconografia consueta, ne dà un’ autonoma interpretazione formale e cromatica. Linea e colore seguono le forme, costruiscono volumi, lasciano trapelare le emozioni. I corpi e i volti sono fisicamente individuati, senza tuttavia ‘scadere’ nel verosimile. Il noto Angelo bianco della Resurrezione, (figura 9) quasi genio antico, domina i soldati addormentati, mentre le Pie donne si raggruppano su un lato con moti che piaceranno ai pittori italiani. La bella Annunciata che fila, (figura 10) composta e nobile figura di giovane donna, siede pensosa su un cuscino rosso sullo sfondo architettonico appena accennato che allude al tempio.

Significativa per capire quale doveva essere lo splendore originario della chiesa è la descrizione che ne fece, ancora nel 1550, l’Ambasciatore di Venezia Catarino Zen – ripreso nove anni dopo da Melchior Saidliz. Evidente vi appare l’allusione a quello che era stato l’uso di metalli preziosi e soprattutto di oro da parte dei pittori, non solo in particolari decorativi (come già a Studenica), ma anche nei fondali degli affreschi realizzati nelle zone più visibili del tempio, a costruire un rapporto diretto tra l’edificio materiale e lo splendore del divino: una presenza che, rara nella pittura bizantina, caratterizzerà in seguito le principali fondazioni dei Nemanijc’ da Sopocani a Banjska in Kosovo, mausoleo di Milutin. Anche se oggi di quell’originario splendore rimangono solo tracce, resta documentata, tramite indagini tecniche e relativi studi, la volontà dei committenti e degli artisti di rendere la chiesa scrigno prezioso, in cui la superficie dipinta si ispira alla ricchezza delle tecniche musive care ai bizantini, tutt’altro che ignote ai colti autori del ciclo.

Qualche decennio dopo anche nel monastero di Sopocani, fondato da Uros I, la chiesa, dedicata alla Trinità, fu costruita secondo le ‘regole’ della scuola raska, tuttora riconoscibili- anche nelle zone ricostruite- nella distribuzione e decorazione dell’esterno, in particolare negli archetti pensili e nelle lesene lungo le pareti, nella scansione delle bifore e delle absidi, come nella tensione delle strutture verso l’alto (figura 11).

Gli affreschi realizzati dal maestro principale e dai suoi collaboratori nelle parti più importanti della chiesa, specie nella navata e in parte nel nartece, costituiscono un complesso unico nello stesso mondo bizantino, e uno dei vertici dell’arte europea del ‘200: espressione sublime di quella ‘rinascenza’ che aveva cercato modelli nel più nobile ellenismo, tra Nicea e Costantinopoli, e di cui abbiamo visto, qualche decennio prima, l’alta ma diversa interpretazione di Mileseva. Anche le pitture dei più importanti maestri di Sopocani avevano in origine preziosi fondi d’oro, ancora oggi in più parti ‘suggeriti’ dalla sopravvissuta preparazione ocra. Su quello sfondo spiccano monumentali, armoniche figure di Santi (fig. 12), Profeti, Evangelisti, (figura 13) Patriarchi, Apostoli (figura 14), Padri della Chiesa – vero e proprio pantheon del mondo ortodosso nella particolare versione serba- , le cui forme, fisicamente volumetriche, sono rese con colori luminosi e sottili passaggi chiaroscurali. Tra le scene, spesso inserite in ambienti architettonici e paesaggistici spazialmente allusivi e coinvolgenti, anche se mai ‘realistici’, si vedano la Discesa all’Ade, in cui le tensioni pur presenti si stemperano nell’armonia geometrica delle linee e nei rapporti cromatici; la ‘Dormizione della Vergine’ (figura 15), di dimensione monumentale, entro cui si accostano e dialogano colori e forme nella scansione simmetrica degli opposti; e la parte sopravvissuta della Natività, dove i pastori, eleganti figure dai movimenti trattenuti, in un paesaggio roccioso, accanto a un idillico gregge – rievocazione anch’esso di antichi modelli- si interrogano in un dialogo silenzioso, indicando verso l’alto. Non lontano, lo splendido particolare del Bagno del Bambino riprende un tema già diffuso, ma qui interpretato con un inedito ‘naturalismo’ che piacerà agli artisti italiani di fine secolo.

La datazione di queste pitture è stata posta tra 1263 e 1268- solo pochi anni dopo la riconquista paleologa di Costantinopoli. Tra i diversi elementi che hanno consentito di stabilirne i termini temporali ha importanza anche l’analisi dei personaggi rappresentati nel monumentale episodio storico che, sulla parete est del nartece, raffigura la morte dell’ex regina Anna Dandolo, lì sepolta. All’evento partecipano suo figlio Uros, il fratellastro ed ex re Vladislav , i giovani principi Dragutin e Milutin e, ai piedi del letto funebre, ancora una volta, la regina Elena. A conferma del possibile termine ‘post quem’ del 1263, qui compare anche il fratello di Uros, l’arcivescovo Sava II, con le insegne della carica da lui ottenuta in quell’anno, mentre l’assenza della moglie di Dragutin, Katalina, sposata nel 1268, che sarà sempre raffigurata accanto al marito nelle successive fondazioni, rende difficile ammettere la sua mancanza dopo tale data in un dipinto celebrativo della famiglia.

A partire dal 1233 – ancora negli anni di San Sava, e fino al 1250 – riprendendo forse il modello di Zica e Mileseva – era stata costruita a Pec’, nel Kosovo, nel cuore dell’antica Serbia, la chiesa più antica tra quelle che formeranno il più importante centro religioso dello Stato (figura 16): dedicata ai Santi Apostoli, questa fu destinata ad ospitare il mausoleo dei vescovi serbi. Quando, nell’ultimo decennio del ‘200, la prima sede dell’Arcivescovado, Zica, aveva subito gravi danni a causa di incursioni di Bulgari e Tatari, il principale centro dell’autorità ecclesiastica fu lì trasferito. Il complesso, che poi ospiterà il Patriarcato, arricchito di nuovi edifici e pitture tra fine ‘200 e primi del ‘300, assunse la funzione di punto di riferimento per la Chiesa e la cultura nazionale anche nei secoli successivi, nel lungo periodo della dominazione ottomana, e fino ad oggi.

Anche se le prime pitture dei Santi Apostoli, realizzate intorno al 1260, sono in pratica contemporanee a Sopocani, presentano significative differenze di stile rispetto a quelle dei maestri che operarono nella fondazione di Uros in anni vicini: segno della varia ricchezza che contrassegnò i corsi pittorici bizantini e serbi del periodo. Anche le più antiche maestranze presenti a Pec’ vengono ritenute di provenienza greca, vicine a quelle che eseguirono le migliori pitture nella lontana Trebisonda (1238-63). Tra le loro testimonianze ricordiamo la figura della Vergine orante e quelle degli Apostoli . La diffusione di caratteri di stile affini in pitture conservate in luoghi tra loro distanti, fa di queste opere, in mancanza del più vasto tessuto connettivo perduto, rare e tanto più preziose sopravvivenze di una tendenza di amplissimo respiro, ‘sviluppatasi tra Nicea e Costantinopoli durante il periodo dell’occupazione latina ’.

Anche nell’ultimo ventennio del secolo XIII furono affrescati, nelle province greche come nella regione balcanica, diversi cicli pittorici, ulteriore espressione del processo che condurrà dal nobile classicismo di Sopocani alle tendenze proprie della fioritura artistica di primo ‘300.

Tra 1270 e 1276, prima della detronizzazione di Uros, anche Elena, unica tra le figure femminili legate alla dinastia, aveva fondato a Gradac il proprio monastero – mausoleo, (figura 17) dove fu seppellita nel 1314: secondo la tradizione ormai consueta degli edifici eretti dai Nemanjic’, l’architettura della chiesa principale, che presenta anche suggestioni del gotico francese, segue, pur con interessanti innovazioni, il modello della scuola raska.

Gli artisti che negli anni ottanta vi eseguirono il danneggiato ciclo di cui è ormai leggibile solo qualche frammento vengono giudicati in rapporto con le maestranze allora attive a Costantinopoli o nelle provincie macedoni e greche: il loro stile è ancora legato – come suggerisce la committenza di Elena -ai modi impostisi nel periodo della Rinascenza che aveva trovato la sua più alta realizzazione a Sopocani – anche se qui e là vi si notano già i segni dell’ ulteriore cambiamento che porterà, tra fine secolo e primi decenni del ‘300, alla fase matura della pittura paleologa. Ne sono indizio la presenza di nuovi temi e il consistente arricchimento dei soggetti. Per fare un esempio, la tradizionale Natività diventa occasione per rappresentare in un’unica scena diversi episodi successivi, fino alla rara Fuga in Egitto.

Al 1295- 96 risalgono gli affreschi della chiesa episcopale di Arilje, fondata da Dragutin seguendo il modello dei predecessori. Val la pena ricordare con gli studiosi serbi che nell’ambito di quelle pitture sono stati individuati indizi documentari che fanno supporre la possibile provenienza della bottega esecutrice dalla seconda città dell’Impero, Salonicco, una delle più significative realtà culturali del mondo bizantino.

Malgrado anche qui si senta la suggestione di alcuni elementi della maggiore arte classica di metà 200, vi si nota però soprattutto la ricerca di nuove strade, testimoniata tra l’altro dal gusto per un più accentuato ed espressivo movimento, meno classicamente inteso, e per l’ulteriore inserimento di nuove scene, personaggi ed iconografie.

 

7) ALCUNI ESEMPI PER UN COLLEGAMENTO TRA CULTURE

Sempre nuovi tasselli confermano i legami tra le principali espressioni dell’arte bizantina duecentesca, specie nella sua ‘versione’ serba, e la contemporanea produzione della penisola italiana: e tali influssi, riconosciuti in luoghi diversi tra loro, fanno pensare all’esistenza di rapporti almeno in qualche caso diretti, incentivati dalle alleanze politiche e commerciali stabilite in quei complessi decenni.

Le suggestioni ‘balcaniche’ riconosciute in alcune testimonianze veneziane dei primi vent’anni del 200– all’epoca in cui era in Serbia Anna Dandolo-, e in particolare in mosaici di San Marco come la nota Orazione nell’orto, eseguita intorno al 1219- potrebbero dipendere da una simile circolazione di cultura. Nella città lagunare – anche per il ruolo non marginale assunto a Costantinopoli e in Serbia dalle ricordate presenze ‘latine’ e direttamente veneziane accanto a quelle greche per tutto il ‘200 – simili tangenze non furono casuali. Esse sono ancora ben riconoscibili negli ultimi decenni del XIII secolo e ai primi del ‘300, e ancora oltre. Se ne ricordino i riferimenti nel momento più avanzato del cantiere di San Marco, ma anche in frammenti sopravvissuti della pittura murale lagunare (come il discusso affresco con Sant’Elena e santi in San Giovanni Decollato, in cui sono state riconosciute suggestioni dal momento ‘classico’ di Mileseva e in parte di Sopocani) e in dipinti su tavola realizzati in città intorno agli esordi di Paolo Veneziano.

Nei primi decenni del Duecento a Roma i papi- e in particolare Onorio III – lo stesso che aveva inviato la corona di re a Stefano Primo coronato-, in mancanza di maestranze autoctone esperte nella realizzazione di mosaici, avevano chiamato ad ornare chiese e basiliche abili maestri di provenienza, ma non necessariamente di origine, veneziana, collegati a modi non lontani dall’Orazione nell’orto. Ma per quanto riguarda il passaggio di temi e influssi nella città papale non possiamo soprattutto dimenticare il ruolo svolto dal papa francescano Niccolò IV (1288 – 1292), che in gioventù era stato nella stessa Costantinopoli, sentendone poi sempre la suggestione culturale. Significativo fu tra l’altro il rapporto di quel colto Pontefice con Elena d’Angiò che, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo, gli donò l’icona tuttora nel Tesoro di San Pietro, in cui, sotto il Cristo benedicente e gli apostoli Pietro e Paolo, compare lei stessa inchinata davanti a San Nicola, con ai lati i figli Dragutin e Milutin. Ricorderemo allora che molte fondazioni francescane promosse dall’ex regina serba lungo il Litorale – di cui purtroppo restano quasi sempre solo tracce documentarie (Subotic’)- sono collegate alla data 1288, e comunque agli anni intorno al 1290, in cui era papa Niccolò.

Proprio a Niccolò si deve, sullo scorcio del ‘200, la promozione di cantieri che, a Roma come ad Assisi, presentano, accanto a tante ‘novità’, anche forti suggestioni dalla maggiore arte d’Oriente, con echi dalla pittura della Rinascenza bizantina anche nella versione che ne era stata data nei monasteri serbi, specie Mileseva e Sopocani.

Entrando nel dibattito su quel momento dell’arte romana, Valentino Pace in particolare vi riconosce legami con le pitture sopravvissute nei monumenti balcanici. Uno dei maestri più influenti del tempo, Jacopo Torriti, pure francescano, sembra sentirne la suggestione: nei mosaici absidali di Santa Maria Maggiore e negli Apostoli nell’abside di San Giovanni in Laterano viene suggerita la presenza di tangenze con Sopocani. Motivi di sottile parallelismo con lo stesso ciclo sono stati identificati anche nel Cristo del Giudizio Universale di Pietro Cavallini in Santa Cecilia in Trastevere. Ed è ancora Cavallini a mostrare consonanze con simili modelli nelle Storie della Vergine per Santa Maria in Trastevere, dove, nel Bagno di Maria Bambina, troviamo una versione iconografica vicina a quella del maggiore maestro di Sopocani nella Natività. Agli esordi pittorici del cantiere di San Francesco in Assisi vengono poi suggeriti contatti tra il Padre Eterno della Creazione- la prima scena nella zona alta della navata della Basilica, pure riferita al Torriti – e gli affreschi di Mileševa.

I contatti dell’antica Serbia, e in particolare delle città della sua costa, con le regioni adriatiche italiane furono ovviamente sviluppati anche dal punto di vista culturale. Con la vicina Puglia furono resi più forti e frequenti, oltre che da naturali tramiti geografici, commerciali, politici, e religiosi (per un periodo parte del Litorale serbo dipendeva dal Vescovo di Bari), anche dalla presenza nella cattedrale barese della tomba di San Nicola, venerato su entrambe le sponde- in particolare proprio dai Nemanjic’ , che nel corso di tutta la loro storia elargirono ricchi doni alla Cattedrale barese.

Nello stesso scorcio di tempo anche in territorio emiliano e romagnolo possono riconoscersi ‘segni’ che confermano anche culturalmente la presenza di contatti con l’altra sponda adriatica. A parte le possibili suggestioni balcaniche già suggerite ad esempio negli affreschi del Battistero di Parma o in quelli di San Bartolo a Ferrara (ma si veda a questo proposito il recente importante contributo di Valentino Pace (Zograf 2004), non mancano simili riflessi anche nel primo sviluppo della scuola riminese: in essa, accanto alle suggestioni giottesche, troviamo elementi – specie di carattere iconografico- acquisiti tramite lo scambio con i centri della costa dalmata. In uno dei più antichi maestri di Rimini, Giovanni, la tavoletta con la Madonna e Santi oggi a Faenza, proveniente da una chiesa francescana, costituisce ad esempio ‘traduzione’ in nuovo linguaggio del tema balcanico della Madonna Pelagonitissa.

Sempre più da indagare sono anche i legami tra l’arte bizantina, anche nella ‘versione’ serba, e la maggiore cultura toscana del ‘200: a Firenze, e soprattutto a Pisa, città ‘marinara’ da sempre collegata a Costantinopoli da commerci e rapporti politici, spesso in conflitto con Venezia e Genova. Le nuove ricerche confermano tanti legami diretti, pur uniti ad un linguaggio in trasformazione. Anche in Giunta Pisano, la cui influenza fu poi forte fino all’Umbria e all’Emilia, sono presenti suggestioni probabilmente mediate dal neo ellenismo costantinopolitano, molto vicine a Mileseva E se osserviamo alcune antiche Madonne pisane, non possiamo non riconoscervi almeno l’informazione su modelli, anche meno noti, come quello, datato negli anni venti del ‘200, della ‘Madonna con Cristo nutritore’ nella chiesa della Bogorodica Ljeviska a Prizren in Kosovo, purtroppo gravemente danneggiata nel marzo 2004.

Persino nella ‘gotica’ Siena, e nel grande Duccio di Boninsegna, possono identificarsi –pur nell’interpretazione di una personalità creatrice- indizi di ascendenze a volte direttamente balcaniche. Nella Resurrezionel’Angelo sul sepolcro sembra traduzione in lingua gotica del mirabile Angelo bianco di Mileseva. Ma anche nella grande vetrata per l’abside del Duomo, mentre il CristoDormizione della Vergine presenta straordinari contatti con quello della simile scena di Sopocani, le figure dei Profeti nei lati trovano più di un riferimento nei Santi di Mileseva. nel dossale della Maestà già nel Duomo, della

A confermare poi i suggestivi legami già suggeriti da Radojcic’ tra la Deposizione, una delle ‘Storiette della Passione’ oggi conservate tra la Pinacoteca senese e diversi Musei, eseguite da antichi maestri attivi a Siena, e la simile scena nello spazio sotto la cupola della stessa Mileseva, possiamo oggi aggiungere i nuovi possibili indizi conseguenti alla scoperta, nei locali sotto il Duomo, di importanti affreschi del secolo XIII: tra questi la Deposizione dalla Croce vale a confermare i rapporti con la simile figurazione del monastero serbo.

E’ vero che troviamo un’iconografia quasi identica nelle composizioni dedicate al soggetto sia nelle zone di influenza bizantina che nelle loro riprese occidentali, e che, tradotta in nuovi linguaggi, essa compare fin nell’arte gotica. Ma l’impianto figurativo della Deposizione del Duomo senese, pur alludendo a nuove direzioni di ricerca, presenta cadenze che evidenziano possibili prestiti anche formali da prototipi del classicismo d’Oriente, come quello di Mileseva.

Non si tratta di ricondurre gli affreschi senesi ad un maestro di immediata educazione bizantina, ma di collegarli con una tendenza che, nella volontà di riappropriarsi dei modi più alti della cultura dell’Impero ‘romeo’, identificava in quel confronto una propria nobilitazione- riferendosi in questo caso non a un ‘modello’ generico, ma a un più immediato contatto con un ben determinato contesto ambientale e con un simile sentire pittorico.

Possiamo individuare tracce di simili percorsi ancora nella Bologna gotica dei primi decenni del ‘300: nel clima che la vedeva centro ‘internazionale’ di commerci e scambi , e dove aveva rilevante funzione la presenza dell’Università e degli ordini religiosi, la città manteneva contatti con Venezia, con la costa- in particolare con Rimini- e con le vicine regioni, come – in quanto legata ai Guelfi- con la Francia, gli angioini e il papato.

Negli anni Trenta del ‘300 vi cresceva un’autonoma scuola artistica, in rapporto ‘libero’ con quella riminese, ma più fortemente ancorata a modi gotici, e a una rilettura in senso ‘naturale’ di antichi modelli.

Furono ancora i francescani a chiamare nel loro convento bolognese Vitale, uno dei protagonisti delle nuove tendenze pittoriche. E proprio in San Francesco, nei primi anni del quarto decennio, il maestro ‘tradurrà’ in linguaggio gotico un’iconografia rara in Italia, eseguendo, sul pilastro presso l’altare della basilica, l’affresco che, dopo la riscoperta nel 1978, è conosciuto come ‘Madonna del Ricamo’. La Vergine vi è raffigurata come Madonna operosa, nell’atto di ricamare, costituendo una delle più antiche versioni note in Italia di un tema diversamente diffuso nella cultura bizantina, che aveva sempre collegato il soggetto della Madonna che fila all’Annunciata, colta dall’Angelo mentre è intenta a tessere nel Tempio

Forse non è un caso che, tradotta in linguaggio occidentale e in un nuovo contesto, l’iconografia compaia, dopo i possibili prototipi senesi, proprio nella chiesa francescana di Bologna, e nel mondo espressivo di Vitale. E’ come se certo ‘naturalismo’, proprio della trascrizione dei moduli bizantini quale appare nelle fondazioni dei re serbi, dopo aver attraversato l’Adriatico, continuasse a diffondere, anche a distanza di tempo, modelli più confacenti al gusto del ‘naturale’ proprio di una cultura in corso di rinnovamento come quella bolognese dei primi decenni del ‘300.

Proprio quell’opera – con il suo ‘filo’ esistente ma non facilmente leggibile, di cui spesso si è negata la presenza- è diventata, a partire dal primo momento dello scambio con la Serbia nel 1994, un vero e proprio simbolo degli antichi legami mai interrotti malgrado tante negazioni e rifiuti, e nello stesso tempo sottile allusione al nuovo incontro tra diversi luoghi e persone che nel corso degli ultimi dieci anni hanno voluto costruite momenti di positivo, reciproco incontro al di là delle volute strumentalizzazioni .

 

TRACCE PER UNA BIBLIOGRAFIA

Indicazioni per una inquadratura di storia e cultura della Serbia nel ‘200 (opere in italiano cui si fa riferimento nel testo):

(Per ulteriore letteratura sull’argomento si rimanda alla bibliografia contenuta nei contributi di seguito elencati e alle segnalazioni riportate in calce al testo di Valentino Pace)

V. Lazarev, ‘Storia della pittura bizantina’, edizione originale 1947 (edizione italiana Milano 1967), in particolare pp. 293- 304

S. Cirkovic’, I serbi nel Medioevo, edizione italiana, Milano (Jaca Book), 1992

T.Velmans, Affreschi e mosaici, in T. Velmans, V. Korac’, M. Suput, Bisanzio – Lo splendore dell’arte monumentale, Milano (Jaca Book), 1999, in particolare cap. V, La cosiddetta Rinascenza dei Paleologi, p. 179 segg

S. Paijc’, ‘La Serbia nel XIII secolo. Interazione storico – artistica ’, pp. 13- 24, con bibliografia; sui monasteri, Studenica; Prizren; Mileseva; Moraca; Pec’; Sopocani; Gradac; Arilje, pp. 29- 86, in ‘ Tra le due sponde dell’Adriatico- la pittura nella Serbia del XIII secolo e l’Italia, cat. della mostra (Bologna, Ferrara, Bari, Venezia), Ferrara 1999 (per una generale inquadratura del secolo in Serbia).

Sui rapporti tra l’arte del ‘200 in Serbia e l’Italia (testi recenti):

-V. Djuric’., I mosaici della chiesa di San Marco e la pittura serba del XIII secolo, in ‘ Storia dell’arte marciana: i mosaici, Atti del Conv. int. di studi (Venezia 1994)’, a cura di R. Polacco, Venezia 1997, pp. 185-194.

R. D’Amico; S. Pasi; P. Angiolini Martinelli; E. Marcato; M. Medica; R. Lorusso Romiti; M. Milella; F. Lollini, in Tra le due sponde dell’Adriatico- la pittura nella Serbia del XIII secolo e l’Italia, cat. cit. , Ferrara 1999.

V. Pace, Dieci secoli di affreschi e mosaici romani; Jacopo Torriti frate, architetto e ‘ pictor’ ; Mosaici e pittura romana del Medioevo: pregiudizi e omissioni, in ‘Arte a Roma nel medioevo: committenza, ideologia e cultura figurativa in monumenti e libri ’ , Napoli 2000 , p. 305 segg.; p. 399 segg. ; p. 287 segg

R. D’Amico, ‘Appunti sui rapporti tra la Serbia dei Nemanja, i Balcani e le culture della penisola italiana nel secolo XIII: ancora tra le due sponde dell’Adriatico, e R. D’Amico- D. Preradovic’, schede (Mileseva, Sopocani, Pec’) in ‘Il Trecento adriatico- Paolo Veneziano e la pittura tra Occidente e Oriente, cat. della mostra di Rimini, a cura di F. Flores D’Arcais, Milano 2002, pp. 57- 63

V. Pace, Aquileia, Parma, Venezia, Ferrara: il ruolo della Serbia ( e della Macedonia) in quattro casi di ‘maniera greca’ nel Veneto e in Emilia, in ‘Zograf n. 30, 2004, in corso di stampa

Per le informazioni contenute nel testo rimando anche a miei precedenti contributi sull’argomento, in particolare:

R.D’Amico, Quel ‘filo’ da Mileseva a Bologna’, in ‘Strenna storica bolognese’ 1997 , pp. 237- 263

‘Tra Oriente e Occidente attraverso l’Adriatico- due regine della Serbia del ‘200 a Bologna’, in ‘Strenna storica bolognese’ 1998, pp. 205- 226

‘Per la storia dell’icona serba del Vaticano: il rapporto con le vicende della Basilica di San Pietro e una sua ‘replica’ seicentesca a Fano’ in ‘Zograf’ 2000, pp. 89- 100

‘Ponti distrutti- ponti da ricostruire- ancora il ‘filo’ tra Bologna e Belgrado’, in ‘Strenna storica bolognese’ 2000, pp. 255- 270

‘Alla confluenza tra fiumi e culture- Per la costruzione di nuovi ponti’, in ‘ Strenna storica bolognese’ 2001, pp.247- 266

‘Tra storia e tutela lungo le strade della Serbia. I monasteri di Mileseva e Sopocani, in ‘Strenna storica bolognese’ 2002, pp. 191- 207

‘Memoria storica e tutela:perla conoscenza la salvaguardia del patrimonio culturale della Serbia, in ‘Mediterraneum – Tutela e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali ’ , II, La tutela del patrimonio culturale in caso di conflitto, a cura di F. Maniscalco, Napoli 2002, pp. 181- 190

‘Antiche presenze serbe in Italia: storia e arte per la ricostruzione dei fili perduti, in ‘Strenna storica bolognese’ 2003, pp. 155- 175

‘Percorsi iconografici e artistici tra ‘200 e ‘300. Da Siena a Bologna’, in ‘Strenna storica bolognese’ 2004, pp. 187- 209

Sui principali monasteri (in lingua serba, con sunto in inglese, e ricca documentazione fotografica) :

S. Radojcic’, Mileseva, Beograd 1963

G. Babic’- V. Korac’- S. Cirkovic’, Studenica, Beograd 1986

V. Djuric’, Sopocani, Beograd 1991, pp. 173- 175

Per il passaggio tra ‘200 e ‘300:

B. Todic’, ‘Srpsko slikarstvo u doba Kralja Milutina’, Beograd 1998; ed. inglese Serbian Medieval Painting: The Age of King Milutin, Beograd 199

 

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